In the Shadow of the Cypress

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In the Shadows
of the Cypress

di Anna pitta

Il Miglior Cortometraggio d’Animazione agli Oscar 2025

Silenzioso come il dolore che racconta, In the Shadow of the Cypress è il cortometraggio d’animazione vincitore agli Oscar 2025. Diretto da Hossein Molayemi e Shirin Sohani, dura appena venti minuti, ma rimane addosso molto più a lungo. Non ci sono dialoghi, non ce n’è bisogno. A parlare sono i luoghi, i corpi, gli oggetti. Il mare.

La storia ruota attorno a due personaggi: un ex capitano di marina affetto da disturbo post-traumatico e sua figlia, che tenta – con pazienza e con ostinazione – di prendersi cura di lui. O forse di salvarlo. Vivono in una casa che guarda il mare: anche lei è un personaggio, in silenzio, come tutto il resto. Sembra trattenere i sospiri di chi ci vive dentro, e incornicia un paesaggio che, anziché suggerire l’infinito, mette in scena una prigione aperta. Perché oltre quel mare, in fondo, non si vuole davvero andare.

Il dolore che non si dice

È proprio quando la figlia decide di andare via che, sulla spiaggia, compare una balena. Arenata. Immobile. Enorme. Inspiegabile. Lei la guarda con tenerezza, come si guarda una ferita aperta. La balena è una presenza impossibile da ignorare: pesa, ingombra, chiama attenzione. È il trauma che si è fatto corpo. Un corpo da aiutare.

In the Shadow of the Cypress padre, figlia e balena
In the Shadow of the Cypress padre, figlia e balena

 

Il cortometraggio non te lo dice, ma ti porta lì, dentro a quel peso. È la rappresentazione visiva – ed emotiva – di ciò che Freud definiva come “il ritorno del rimosso”: un contenuto psichico che non può essere né digerito né dimenticato, e che quindi riemerge, trasformato, spesso in forma simbolica. Come una balena sulla sabbia.

La figlia non se ne va. Rimane, prova a prendersene cura. Tenta di spostarla, di rimetterla in mare. Ma il trauma, si sa, non si muove facilmente.

“In the Shadow of the Cypress” e L’illusione di riparare

Il padre passa le giornate a riparare una vecchia barca. Con la precisione ossessiva di chi spera che martello e chiodi possano rimettere insieme non solo le assi di legno, ma anche i pezzi della propria vita. Si aggrappa a quel gesto come a un rituale, quasi volesse dimostrare a sé stesso che ciò che è stato distrutto può ancora essere sistemato.

Quella barca non è un oggetto neutro: è il teatro della tragedia, il luogo in cui la madre è scomparsa in mare. Winnicott parla di oggetto transizionale, qualcosa di familiare che in questo specifico caso tiene ancorati alla realtà quando tutto intorno vacilla. Ma mentre lui la ripara, si intuisce che quel legno è marcio, e che ciò che è rotto – in certi casi – non si aggiusta. Lo sforzo di ricostruzione, in fondo, è solo una forma mascherata di negazione. Un modo per non affrontare l’unico gesto davvero necessario: lasciar andare.

La barca di In the Shadow of the Cypress
La barca di In the Shadow of the Cypress

Corpi senza voce

I personaggi non parlano, eppure raccontano tutto. I volti cambiano colore con lo stato emotivo: blu cupo per la rabbia, grigio lattiginoso per l’apatia, il bianco per la stanchezza estrema. È un’animazione che lavora sulla pelle, sul respiro, sulla temperatura emotiva. Una scelta stilistica potente, che sposta il racconto dalla logica al sensibile, come accade nei sogni o nei ricordi.

In the Shadow of the Cypress
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Si ha la sensazione che ogni gesto sia calibrato per contenere qualcosa che non riesce a uscire. Non è solo silenzio, è censura emotiva. Anche il non detto comunica, e qui tutto urla senza voce. Gli ambienti, gli oggetti, persino l’acqua sembrano portare il peso di ciò che non si riesce a pronunciare. Non c’è bisogno di parole: il trauma, come nella realtà, si manifesta attraverso il corpo.

Quando l’allegoria si spezza

In_the_Shadow_of_the_Cypress padre col fucile
In_the_Shadow_of_the_Cypress padre col fucile

 

Ulteriormente appesantito a livello emotivo, il padre prende il fucile. Non sa più che farsene di quella balena. È troppo, è invadente, è un peso che non si lascia né abbandonare né sollevare. Allora meglio sbarazzarsene. È il gesto dell’impazienza, del dolore che si trasforma in difesa. La balena non è più un simbolo, è un nemico.

Ma la figlia lo ferma. E nella lotta che segue, accade qualcosa di inaspettato: il padre si frantuma. Letteralmente. Come fosse fatto di ceramica. Si rompe in mille pezzi. È una delle immagini più forti del corto. Il trauma non esplode: si sgretola.

È qui che si intravede un cambiamento possibile.
Ciò che non affrontiamo nella vita si presenterà come destino. Ma la rottura può diventare varco. Il dolore, se attraversato, smette di avere potere.

“In the Shadow of the Cypress” e Il gesto che salva

Ora tutto è pronto. Il padre lega la balena alla barca, quella barca che non poteva più prendere il largo. La lascia affondare, lasciando che trascini con sé il trauma. E mentre la nave sprofonda, la balena si libera. Ricomincia a nuotare. Il peso si scioglie, si muove e, finalmente si trasforma.

È una catarsi. Il momento in cui si lascia andare qualcosa. Dove non c’è più bisogno di riparare, ma solo di, appunto, lasciar andare.

E poi il mare

In the Shadow of the Cypress si chiude su una scena apparentemente ambigua. Il corpo del padre sale verso la superficie. Non sappiamo se sia vivo o morto. Sopra in una barchetta, la figlia lo cerca con ansia e paura. Aspetta. Spera di rivederlo.

Non c’è un abbraccio, non c’è una risoluzione. Il cortometraggio si chiude su una possibilità.

Il mare, che per tutto il film è stato simbolo di pericolo, di perdita, ora è anche luogo di rinascita. Il mare è il confine mobile fra la vita e la morte. E proprio perché mobile, lascia spazio al ritorno, alla trasformazione. È un finale che non chiude, ma apre. Un epilogo in forma di sospensione, dove ciò che affonda non sempre scompare. A volte torna. Diverso.

Le immagini sono utilizzate esclusivamente a scopo informativo non commerciale. I diritti sono riservati ai rispettivi proprietari.
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